Duemilacentotrentasei. Duemila. Cento. E trentasei. E sono tutti obbligatori nel programma didattico della scuola dell’obbligo giapponese. Parlo dei #kanji, gli ideogrammi con cui la lingua giapponese è scritta, e se non li conosci tutti difficilmente puoi leggere un quotidiano. Tutto qui? Almeno! Ogni kanji ha 3-4 pronunce, e a seconda di come li combini con gli altri la fonetica cambia. Eccezioni ne abbiamo? Quante ne riesci a immaginare, siamo in Giappone, mica a Londra dove con una sola forma verbale e una “s” al plurale hai sbrigato la pratica lingua-inglese. Non è finita qui, ci sono ancora i due alfabeti fonetici. Il primo si chiama #hiragana il primo mattone della lingua, anche noto come go-jū-on cioè i cinquanta suoni. Che poi sono solo 48. Cioè, no. Sono 48 i caratteri che rappresentano le sillabe pure, ma devi aggiungere le 20 sillabe impure, le 5 sillabe semi-pure e le 36 sillabe contratte. Finito? Si, magari … c’è anche il #katakana, altro alfabeto fonetico, sempre di 48+20+5+36 sillabe con cui scrivere tutte le parole che - non essendo giapponesi (povere sfigate) - non hanno manco uno straccio di kanji che le rappresenti, ad esempio il tuo nome o la tua città. Vabbè, quindi facendo due conti ... sì, eccoci con il conteggio:
[(2.136 kanji) x (4 pronunce)] + (109 sillabe di hiragana) + (109 di katakana) + (un bel mazzetto di eccezioni) = Un gran bel casino. Alla seconda.
Cioè, per capirci, noi abbiamo la bellezza di 21 lettere nell’alfabeto italiano! Se proprio vuoi caricare un po' sono 26 sulla tastiera querty . Fai tu.
Ma c'è di più, e se volessi adesso potrei spaventarti a morte con il #keigo, ovvero (citando Santa Wikipedia) “Il linguaggio onorifico giapponese: un insieme di modalità linguistiche utilizzate per enfatizzare il rapporto interpersonale fra gli interlocutori, in relazione all'età, alla posizione sociale e al grado di intimità esistente."
Insomma, un'altra lingua dentro la lingua, con termini, sintassi e regole tutte sue.
Questo sproloquio e la sassaiola di numeri mi servivano per dirti che scrivere e parlare giapponese non è roba semplice, e anche se studi come un matto, ti applichi e alla fine fai abbastanza spazio nel cervello per inserire tutto quello che serve, spesso quando apri bocca fai solo danni, anche se grammaticalmente non hai fatto errori.
Dài basta così, volevo solo aprire uno spiraglio sul mondo-lingua-giapponese, che tra l'altro non è nemmeno l’ostacolo più grande per chi vuole fare business con il Popolo del Sol Levante. Padroneggiare la lingua da un punto di vista “tecnico” - infatti - non basta, per questo è assolutamente necessario avere al proprio fianco qualcuno che sappia tradurre e parlare sia il linguaggio verbale, tanto quello non-verbale, se vuoi fare business con i Giapponesi.
E ... Indovina un po’ chi può darti una mano? Ci sei? Comunque qui trovi la risposta
Allora ecco alcuni consigli e spunti per comprendere meglio quel caleidoscopio che è la cultura giapponese, espressa tramite tutte le sfumature del linguaggio verbale, e non.
Giù il gettone, si parte!
L’obiettivo minimo da portare a casa in un incontro di lavoro è evitare di offendere, perché è molto facile commettere errori data la vastità delle sfumature da considerare. Il linguaggio non-verbale ha la stessa potenza ed efficacia di quell’arsenale pazzesco di simboli e suoni di cui abbiamo un po' scherzato finora. Forse è anche più importante.
Leggere l’aria, o in giapponese “kuuki wo yomu” Guarda cosa fanno gli altri, "leggi l'aria" che tira, e osserva come si muovono e si comportano prima di interagire e prendere una posizione. Tenere un profilo basso è un ottimo punto di partenza per non sbagliare atteggiamento, per evitare di risultare irritanti ed al contempo guadagnare un buon punto di osservazione sugli altri in situazioni-business, in cui diversi ruoli interagiscono e gli equilibri delicati vanno preservati con meticolosa cura ed attenzione. Osservando il linguaggio verbale (tono, volume della voce, cadenza ecc.) e non verbale (linguaggio corporeo, mimica facciale, postura ecc.) puoi capire meglio come i Giapponesi utilizzano la tecnica del “mirroring” per inserirsi in un contesto di interazione, rispecchiando appunto il feeling generale per inserirsi nel contesto del collettivo. Il gruppo è più importante del singolo. Sempre e comunque.
“Ichi ieba, jū wakaru” che in italiano suonerebbe tipo “dici uno, capisci dieci”. Questa frase ha - secondo me - due interpretazioni: la prima si riferisce al linguaggio vero e proprio, per cui la responsabilità di capire ricade su chi ascolta, perché le frasi sono volontariamente lasciate in sospeso, dando all’interlocutore la possibilità di intelleggere la risposta. Per capirci, dire esplicitamente qualcosa suona offensivo, perché si dà velatamente dello stupido a chi ascolta ... come se non ci arrivasse da solo, insomma. Per noi invece è l’esatto contrario. Quindi dire poco (uno) è una cortesia che lascia spazio alla comprensione tramite altri segnali non necessariamente verbali (dieci). Tranquilli, l’interprete vi salverà preoccupandosi di trovare la giusta sintesi e velatura per una traduzione efficace.
L’altro significato della frase suggerisce di prestare attenzione all’atteggiamento del leader (uno), perché è come vedere al microscopio per ingrandire la propria visuale, visto che si può immediatamente percepire come tutti i presenti (dieci) adattino il loro linguaggio (verbale e non) in funzione del rispettivo ruolo, come si diceva prima rispetto al mirroring.
E se proprio devi parlare tu? Beh, innanzitutto affidati al paracadute dell’interprete che tradurrà le tue parole e le tue intenzioni in modo giusto, ma occhio lo stesso ai 4 pilastri dell’etichetta nella comunicazione non-verbale per cui l'interprete non potrà salvarti in caso di errori:
No eye contact: evita di fissare dritto negli occhi il tuo interlocutore. Anche se nella nostra cultura gli occhi sono lo specchio dell’anima e vuoi fargli vedere quanto è pura e sincera la tua, trattieniti. Uno sguardo fugace ogni tanto va bene, esperimenti di ipnotismo, anche no. I giapponesi ringrazieranno.
Spesso noi Italiani nelle situazioni formali siamo soliti sdrammatizzare con un po’ di sano contatto fisico. Ecco, no! No pacche sulle spalle, no strette di mano tipo schiaccianoci, no ad altre effusioni tipo i calciatori dopo un gol in finale, specialmente con le donne, ça va sans dire. Infine no risate sguaiate, no sbracciarsi come uno che sta annegando, no avvicinarsi troppo o troppo velocemente agli altri.
Non indicare. Dicevamo che starsene ad osservare è cosa saggia e buona, e i Giapponesi lo sanno fare bene, finché non tocca a loro intervenire, sempre nel modo appropriato per il loro ruolo e nel rispetto di quell’etichetta che noi poveretti-da-21-lettere non possiamo proprio capire. Rassegniamoci. Puntare un dito in faccia a qualcuno è come accendere un riflettore da stadio addosso a uno senza vestiti che si vuole nascondere. Ho reso l'idea?
Leggi cosa c’è scritto sui biglietti da visita, rivolgerti a uno stagista come fosse il capo delegazione - o viceversa - fa più danni di un elefante in cristalleria. E lui si sentirà in imbarazzo fotonico per il disonore che ha causato al capo.
Non dire “no”, cantava Lucio Battisti. Anche se non credo abbia venduto milioni di dischi in Giappone è come se lo avessero ascoltato, i Giapponesi, perché difficilmente li sentirai pronunciare la parola “no”. Quindi come si fa a capirli? Ad esempio quando senti la parola “chyotto” (un po’) oppure "muzukashii" (difficile) saprai che è un bel “no”, detto in modo carino, lasciando a te la responsabilità di capire che non è il caso di insistere.
La cantilena del “sì”. Anche capire quando “sì” vuol dire veramente “sì” è un bel rebus. Mentre uno parla, chi ascolta continuerà a ripetere “hai”, cioè “sì” come per sottolineare che è sul pezzo e ti ascolta. Non necessariamente è d’accordo, ti sta solo ascoltando. Se poi hai l’ardire di chiedere direttamente “hai capito?” (evita se puoi, non è educato) la risposta sarà comunque “hai”, anche quando non è così.
Ce la faremo a uscirne? Brillantemente!
Senti qui:
#Nominikeshion, il vero, unico ponte tra le nostre due culture. Questa parola è l’unione di “nomu” che in giapponese significa bere (alcolici, ovviamente) con la parola inglese communication.
Insomma, è il comunicare da sbronzi.
Si, è una figata! La #nominikeshion è una parte fondamentale dell’incontro di lavoro, perché dopo la riunione si va tutti insieme a cena, e poi al karaoke a cantare (bere). E’ un po’ come il terzo tempo nel rugby, ed è un momento in cui il lato "mediterraneo" dei Giapponesi emerge, e anche il mega-boss letteralmente “svacca”, si sbronza, canta stonato a squarciagola senza vergogna, e non è raro che si lasci andare a qualche pacca sulla spalla, domande personali o battute a sfondo comico-erotico.
ATTENZIONE !!! Il giorno dopo sarà tutto finito. Tutto dimenticato. Tutto come prima, quindi mantieni il contegno, accettando senza sorprenderti che le distanze di sicurezza e il distacco ritornino ad essere la prassi.
Allora? Com’è andata? Ti ho incasinato le idee? Oppure ti ho incuriosito? In ogni caso lasciami un commento e ricordati che se hai bisogno di una mano coi giapponesi, lo Zio Dennis ti aiuta volentieri, basta cliccare qui.
Share if you like, I like if you share!
A presto,
Dennis
Comentarios