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Cosa c'è dietro al Made in Italy? Ti svelo il segreto che lo rende inimitabile.



Una storia vera e potente, il riassunto di duemila anni di cultura, arte, sapori, guerre, contraddizioni, valori e tradizioni concentrati in una frase incredibilmente efficace che descrive in modo esemplare l'"Italianità". Un omaggio dovuto e sentito al mentore a cui devo molto, come uomo e come professionista.


Oggi voglio toccare un tasto che suona una nota familiare per tutti, cioè la definizione che si dà ai prodotti italiani, il simbolo di quel modo di essere e vivere di chi è nato nello stivale più bello del mondo, quella cosa chiamata Made in Italy, o a volte Italian Style. Di cosa sto parlando? Ma è chiaro, lo sanno tutti! Di eccellenza, creatività, qualità, innovazione, visione, eleganza, storia, cultura, poeti, santi, navigatori, tradizione e poi ancora di bla, bla, bla, bla … Bla! Balle. Retorica.

Ti sfido hic et nunc a darmi una definizione di Made in Italy, in tre parole, che non sia l’elenco delle caratteristiche di un prodotto commerciale. Immagina di doverlo spiegare a un bambino che ti chiede “ma cos’è il made in Italy?”. Dammi un concetto, una definizione, una frase. Prenditi pure il tempo che ti serve. Fatto? Mica facile, eh?

Lo so. Lo so bene, perché ho affrontato questo scoglio migliaia di volte, quando dovevo vendere non solo un prodotto ma un sistema-Paese, il Made in Italy appunto, per avere una carta in più da giocarmi contro la concorrenza tedesca, giapponese, cinese e indiana, o per vincere lo scetticismo di un buyer che sorrideva al vedermi arrivare all'appuntamento in giacca-e-cravatta, la faccia da bambino e l'aria di chi pensa di saperla lunga.

Spiegare cosa significa "Made in Italy" in poche parole chiare, semplici, dirette ed efficaci per conferire un valore aggiunto al prodotto è stato uno dei miei obiettivi primari.

Già, perché descrivere le qualità del prodotto non ne definisce l’essenza, ma tutti gli Italiani hanno ben chiaro nella zucca cosa significa l’essenza del Made in Italy, o anche “Italian style”. lo sanno tutti, certo ma ... ma come fai a spiegarlo a parole a uno che non sa cos'è? Non si può spiegare! è quella cosa lì, è così e basta. Bisogna essere nati, vissuti e cresciuti qui per “saperlo”, per coglierlo e riconoscerlo quando lo incontri. Scommetto che se te lo chiedo, non sai fare un'istantanea che raffiguri quel modo lì di essere, vivere, pensare, lavorare, mangiare, amare, quell'unione e campanilismo, eleganza e casino insieme, mare e monti, nord e sud, bontà cristiana e crimine organizzato, dolce e piccante, povertà e opulenza, sacro e profano, vario ma sempre uguale e riconoscibile, trasversale ma unico. Ecco: è italiano, appunto.

Ad essere sincero la descrizione migliore di "italiano" che io abbia mai sentito l’ha fatta un giapponese. Non ho mai sentito parole più semplici, dirette e vere delle sue per descrivere il concetto-italiano. Incredibile ma vero, un giapponese che spiega a me cos'è italiano.

E allora ti racconto la storia di una giornata indimenticabile, di un uomo d'altri tempi e di un altro mondo, a cui sarò sempre legato e a cui devo tanto, un attimo di ispirazione e assoluta verità. Giù il gettone, si parte!


La mia prima esperienza lavorativa è stata a Jetro Milano (Japan External Trade Organization), un ente governativo giapponese nato per incentivare i rapporti commerciali tra le imprese italiane e giapponesi. Il direttore di Jetro Milano era - ovviamente - un Giapponese vecchio stampo, tradizionale e tradizionalista che, arrivato in Italia nei primi anni '60, aveva lavorato presso il Ministero dell'Industria e Commercio del Giappone a Roma dirigendo il primo ufficio di Jetro. La dolce vita romana degli anni '60 rimescolò le carte in tavola e nel mazzo, sconvolse le sue certezze, distrasse la sua incrollabile visione metodica e razionale tanto da fargli decidere di restare a vivere e lavorare in Italia invece di tornare in Giappone alla scadenza del primo mandato. Di lustro in lustro rinnovò il mandato per servire "da qui" il suo Paese, ma nel 2003 arrivò il momento di andare in pensione e tornare definitivamente a Fukuoka dopo oltre 40 anni vissuti "qui", amando l'Italia e comprendendone le sfaccettature in modo silenzioso, profondo e cristallino.

Per tributare i dovuti onori al direttore generale di Jetro Italia, nel giorno del suo congedo fu organizzato un evento a cui parteciparono i vertici delle principali istituzioni pubbliche e private di entrambi i Paesi, per dare il giusto risalto all'opera di un sarto come lui, che sapientemente e appassionatamente seppe cucire ed unire i lembi di due culture tanto diverse e lontane, confezionando un abito dal taglio originale e funzionale che non passerà di moda. Un abito internazionale che molte imprese Italiane indossano tuttora e che - nel mio piccolo - ho contribuito a cucire sotto la sua guida nei primi 5 anni della mia carriera.

Avevo un legame particolare con il direttore, tanto che mi aveva concesso in alcune occasioni di interagire con lui in giapponese formale invece che in Kei-Go (linguaggio onorifico), e in occasione di alcune trasferte mi aveva addirittura chiesto di guidare la sua auto, invece di chiedere all’autista di scarrozzarlo, per poter conversare in viaggio. Segnali eclatanti per chi conosce il mondo-Giappone, e rivelatori di una crepa nella concezione delle relazioni gerarchiche, una momentanea concessione all'apertura, in barba alla mia condizione di Gaijin (straniero, o letteralmente “una persona che sta al di fuori”), uno sfrontato voltafaccia al protocollo e all’etichetta.

Bene, tornando a quel giorno: furono molti i personaggi pubblici, eminenze, simboli, celebrità e burocrati che si alternarono sul palco per un sentito discorso di commiato, condito da ricordi e aneddoti, frasi augurali e inchini appena abbozzati (niente strette di mano, con i Giapponesi non si fa). Alla fine toccò anche al direttore salire sul palco e parlare in quel microfono, prima di congedarsi dalla terra che lo aveva accolto per oltre due terzi della sua vita. E salì i gradini in legno scricchiolante del palco, si mise in piedi davanti al microfono a capo chino, guardando i fogli che teneva in mano e su cui aveva scritto il sunto di 40 anni di carriera, e di una vita vissuta nel Bel Paese.

E il silenzio calò, assordante. Fruscio di fogli di carta tra le sue mani. Nessun brusio di sottofondo. Un lungo respiro sibilato nel microfono, poi un secondo più breve, uno sguardo alla platea silente, un colpo di tosse per schiarire la voce baritonale e poi, con il suo marcato accento giapponese e il tono perentorio di chi sa di dire una assoluta verità, esordì e concluse con poche lapidarie parole, che furono la meravigliosa sintesi di una vita spesa per capire, metabolizzare e trasferire alla sua Patria ciò che aveva visto e capito, per aiutare "loro" a comprendere "noi". E disse:


"Se Giapponese ... va a Roma, senza guida turistica ... senza interprete ... dopo due giorni ... lui muore!

Pausa, respiro e: "Se ... Italiano va a Tokyo ... da solo ... senza interprete ... dopo due giorni ... lui è sindaco!"


Dopo un interminabile attimo di glaciale silenzio la platea esplose in una fragorosa risata, mentre io rimasi afono e attonito per lo schiaffo maieutico, per la lucidità e la sapienza con cui seppe scegliere e dosare le parole, rinunciando quasi contro la sua natura a leggere il discorso che aveva preparato e che teneva in mano, alla faccia del protocollo e della sua posizione. Descrisse con poche potentissime sillabe l'ammirazione per le contraddizioni di una cultura tanto diversa dalla sua, che lo aveva sconvolto per certi suoi aspetti (di cui siamo consapevoli e non possiamo andare fieri) quanto ammaliato per la resilienza ed incredibile capacità di cavarsela nelle avversità del suo popolo straordinario. La storia e lo spirito di questo popolo così lontano e diverso lo avevano toccato al punto da fargli decidere di chiudere la carriera istituzionale con una battuta, dico ... un giapponese !!!! Di sdrammatizzare invece di recitare un pomposo discorso di circostanza che la situazione, la sua cultura, e la sua posizione avrebbero richiesto in quanto rappresentante della prestigiosa tradizione del Sol Levante.

Fui forse l'unico a cogliere in quell'atto l'omaggio sincero all'italianità, il guizzo dell'intuizione ironica per dissolvere la malinconia di quel momento solenne, che poneva fine al capitolo più lungo e importante della sua vita. Suonò come "Italiano, ti ho studiato, ti ho capito e te lo voglio dire". Lo vidi un po' come un ultimo abbraccio al modo di essere a suo modo italiano, tratto acquisito negli anni che aveva ormai preso un posto in prima fila nel suo carattere. L'ultimo colpo di coda, una carezza alla culla che per 40 anni lo aveva accolto e che gli aveva trasmesso quel modo di fare e vivere tanto diverso dall'essere "un giapponese".

Il messaggio subliminale che volle dare è che le persone sono IL patrimonio dell'Italia, e sono l'asset più strategico e importante delle aziende italiane. Questo era il messaggio nascosto, il segreto del Made in Italy che il direttore ci ha voluto lasciare, la ragione e il fondamento per cui nessuno sa spiegare cos’è, ma tutti lo sanno riconoscere. Siamo noi, sono le persone. Bisogna solo trovare il modo di "rimetterle al centro", le persone (come diceva Bill Campbell), e ... sì, si può fare. Io ne ho fatto una missione e una professione.

Se ci pensi bene noi Italiani non abbiamo molti altri mezzi se non la nostra italianità (la parte buona e pulita intendo) per competere nel millennio che sta iniziando, o almeno non vedo come possiamo riuscire a farlo con i mezzi e i modi che il mercato vuole usare, perché non sono i nostri, non ci appartengono, non ci rappresentano. Riportare le persone al centro significa ridare la fiducia e mezzi a chi le aziende le guida, rompere quel velo che offusca la visione e che nasconde la nostra vera forza soffocandola con i master, il marketing, la digital-economy, le complicate procedure delle corporation, il profitto a tutti i costi, l'omologazione che più di tutto toglie ossigeno alla risorsa più preziosa che le nostre aziende hanno in casa: le persone.

"Aiutate l'azienda a rigenerare le persone" Mi sembra di sentirlo ancora il direttore. "Tutte le persone", diceva agli imprenditori italiani durante i meeting istituzionali "Tutte".

E io la penso esattamente come lui. Aiutare sì gli Italiani, ma anche dare le possibilità a chi ha lasciato il suo Paese per trovare qui un'opportunità, e contribuire con la sua energia alla nostra economia. Proprio come noi Italiani facemmo per secoli, e come ancora dobbiamo fare per ricevere il giusto riconoscimento al nostro valore rivolgendoci fuori dei confini del Bel Paese.

Voglio condividere quello che ho imparato e assimilato nel mio viaggio per aiutare gli imprenditori e la leadership ad invertire la rotta credendo nella possibilità di lavorare con e per le persone, per riprendere in mano il timone con consapevolezza e dirigere verso un modo più etico, sano, rispettoso e remunerativo di fare business, un po' meno global e con più stile italiano.

Se condividi questa visione per cui le persone sono la chiave per cambiare in meglio, allora condividi anche il post sui tuoi social, o meglio lascia una testimonianza qui


Se poi ti piacciono le mie storie potrebbe interessarti anche quella della macchinetta del caffè oppure quella sul mio periodo più nero e di come ne sono uscito


A presto!

Dennis

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